Area Studenti

Sulla figura materna

Di Francesca Di Summa

Svolgo l’attività di psicoterapeuta con preparazione specifica di Analista e di formatore di analisti. Svolgo altresì l’opera di consulente dei Tribunali Civili e penali adempiendo ai compiti di perito, cioè di Consulente tecnico di ufficio.

Riconsiderando la mia operatività, e confrontandola con colleghi in gruppi di ricerca e di supervisione, sono giunta a convincimenti ed aggiornamenti che sarebbe mio desiderio condividere in questa sede con gli studiosi e ricercatori qui presenti.

Considerato lo spazio concessomi, mi soffermerò unicamente su di una problematica; la espliciterò e presenterò alcune riflessioni, che vorrei qui condividere e riprendere in considerazione con i ricercatori dell’Istituto di Psicologia Individuale “A. Adler”, coordinati dal nostro supervisore, il professor Grandi.

Il concetto che presiede questa comunicazione però può essere così riassunto: “ una non completa od incongrua o disarmonica dalla figura materna nel processo di crescita psicologica di un soggetto fatalmente contribuisce al promuovere una immaturità affettiva, una carenza di progettualità, un ostacolo ad un effettivo incontro con l’altro, a disarmonie di vario ordine e genere e quindi a confluire, in modo quasi inesorabile, in un processo di crescita di un conflitto e quindi di separazione della coppia, allorché tale soggetto giunge al matrimonio.

È noto a tutti che la funzione materna presiede all’impianto delle fondamenta di una progressiva sicurezza affettiva, del processo di autostima, del riconoscimento dell’altro come “altro da sé”, e della fiducia di base, nonché di un atteggiamento fiducioso.

Una amorevole attenzione ai bisogni di tenerezza del bimbo, che solo una madre sufficientemente buona sa esprimere con misura e compiutezza, è la forza promuovente dello sviluppo delle potenzialità empatiche, del sentimento sociale e dello spirito di cooperazione dei figli. Contemporaneamente favorisce, purché non incistato in una simbiosi, il riconoscimento e la significatività della figura paterna, permettendo l’avviarsi di una costruttiva relazione, necessaria per un armonico processo evolutivo.

La figura materna consente l’espressione di cure teleologicamente orientate, non anonime, ben individuate e caratterizzanti l’incontro col proprio figlio, con i diversi figli, ognuno dei quali è realtà a sé stante, specifica ed irrepetibile; viene così reso possibile un suo originario ed originale riconoscimento, e favorisce il primo accesso al linguaggio. Nei primi due anni, l’emisfero destro del cervello del bimbo è il primo a svilupparsi ed è preposto ad elaborare la comunicazione non verbale: il cucciolo dell’uomo apprende così a riconoscere i volti ed a leggerne le espressioni, mettendoli poi in relazione con le persone. Tale emisfero elabora la componente musicale del linguaggio o il tono attraverso il quale si comunicano le emozioni; i gesti visivi non verbali tra una madre ed un bambino vengono istintivamente appresi, quindi elaborati. Si diffonde così un afflato di tenerezza, indotto da una armoniosità espressa dal non verbale e dalla musicalità della voce, musicalità che connota la relazione della madre con il figlio e che deve essere considerata con partecipe emozione, evitando- per quanto possibile- toni che possono offendere la sensibilità accentuata ed immatura del piccolo, immerso nella sua fragilità.

Il cammino verso l’acquisizione del linguaggio passa necessariamente dai suddetti percorsi e l’uso appropriato del linguaggio è un derivato dal rapporto con la madre e dalla sua voce, dal suo modo di parlargli, dall’induzione empatica di stimoli e suoni che progressivamente vengono accolti per essere riproposti.

La tappa evolutiva che si è andati a descrivere, lascia tracce indelebili nel tempo e nella strutturazione del Sé dell’uomo che sarà, quando perverrà all’adultità.

E per riprendere il tema delle difficoltà che si riscontrano nelle relazioni di coppia, lavorando analiticamente a ritroso, si perviene a disegnare una figura materna sofferente di carenze che non hanno consentito il necessario processo evolutivo e, più nello specifico per non disperdersi nella disparata gamma di disagi e di disturbi che incontriamo quotidianamente, non è stata in grado di accompagnare il figlio verso il padre, di favorirne la relazione, di organizzare le basi che avrebbero potuto consentire l’incontro.

Procreare un figlio non è causalità, è progettazione, è scelta, è concretizzazione di uno stile di vita e di una weltanschang; in definitiva è un patto che si attua ed avvera nel concepimento e che richiede cooperazione. Si debbono assumere consapevolmente i ruoli di madre e di padre: la donna e l’uomo si accingono ad introdurre modifiche nella propria vita, si preparano a fronteggiare e gestire le inevitabili variabili che la vita proporrà, si aiuteranno ad affrontare percorsi nuovi.

Spesso però la donna, assunto il ruolo di madre, tende a rimuovere i presupposti che hanno sancito il patto e promuove, non sempre consapevolmente, una dinamica relazionale col figlio che può assumere i connotati della esclusività: ciò può non essere funzionale ad una sana crescita ed evoluzione del bambino poiché può venire a mancare la pregnanza affettiva e creativa del partner, spesso invaso da sentimenti di insufficienza e di esclusione.

È pur vero che il periodo della gestazione induce l’immersione in sentimenti particolarmente intensi che favoriscono sensazioni e percezioni di esclusività, quali il sentire il nascituro come fosse parte fisica del proprio corpo, praticamente un tutt’uno, ed il momento del parto è espressione di gioia ma anche l’avvio di un distacco, di una dolente percezione che si è data la vita ad un soggetto dotato di una propria individualità e di proprie esigenze, che è altro da sé rispetto alla madre: può anche essere percepito un disagio esistenziale sgradevole, quasi si trattasse di una amputazione e spesso – per lo meno- di una deprivazione, che in diversi casi inducono il ben noto disturbo indicato come depressione post-partum. Psicologicamente si tratta di un vissuto traumatico che la donna vorrebbe in qualche misura contenere, quasi a voler ripristinare l’originaria unità mentre pressioni psico-ambientali la sommergono di stimoli perché venga accolta la separazione dal proprio figlio, il riconoscere appunto di aver generato un esserino che è “altro da sé”. La madre ferita nella sua integrità deve consapevolizzare che la relazione col figlio non è diadica, bensì deve prevedere tutto uno spazio terzo, occupato spesso in modo maldestro dal padre: e ciò tuttavia è necessario perché il bambino possa essere avviato verso un processo sano di crescita psicologica.

Perché sia consentito il processo di separazione, deve primariamente essere gestito il trauma; lo si deve ricomporre integrandolo nelle funzioni vitali dell’Io, lo si deve poter tradurre in movimento per la vita, lo si deve rivestire della visione simbolica di un atto creativo. La madre dovrà recuperare nel fondo del proprio animo quanto appreso nell’arco del suo processo di crescita ed esperienziale ed al contempo consapevolizzare la sua specificità primaria che include, non esclude , il preservare l’immagine di sé come donna; si tratta di specificità che contempla anche la maternità, ma non si esaurisce nella maternità stessa, poiché un aspetto pur importante non può né deve soffocare il valore assoluto dell’essere donna, e nello specifico la sua pregnanza di soggetto portatore di significato e di senso.

Solo ricomponendo i tasselli che configurano armonicamente l’essere donna nella variegata ed armonica unità esistenziale, sarà possibile essere madre senza annullarsi nel viversi solo ed unicamente come madre: l’auspicio è che si esprima come madre, ma “non tutta madre”, poiché diversamente sarà ben difficile che al bambino venga permesso di sganciarsi da una adesione simbiotica alla madre stessa.

Si è inoltre avuto modo di osservare che il divenire madre può soffocare positive significatività, anche relativamente ai tre ben compiti vitali. Ne vogliamo qui considerare uno, pur permanendo nell’area dell’amore. Si consideri in proposito il processo di allontanamento, il trascurare ad es. il ruolo di moglie gestito con efficacia e positività prima della maternità. È frequente constatare che il ruolo di madre ha soffocato o per lo meno ridimensionato quello di moglie. E’ come se si stesse progressivamente strutturando una nuova coppia, certamente capace di gratificazioni narcisistiche, che si nutre di se stessa ed esclude la comunità, anche la precedente micro-comunità, così come funzionava (se funzionava) prima del parto. Può pertanto concretizzarsi una nuova relazione privilegiata e simbiotica, che porta però con sé il germe del disturbo, della malattia.

Madre-bambino che si incapsulano nella relazione simbiotica, escludono inevitabilmente il padre, ne annullano la funzione, si deprivano del potenziale che può esprimere, non gli consentono di onorare il ruolo di promotore di socialità e di cooperazione, e viene così disattesa la funzione vitale necessaria per avviare il processo di separazione – individuazione.